La psicologia del lavoro. Una scienza umana che può aiutare l’organizzazione delle imprese e dei dipendenti, ottimizzando (non solo i processi organizzativi delle imprese ma soprattutto la più grande risorsa di cui ogni impresa dispone: le persone che vi lavorano) le risorse di ogni lavoratore e quelle dell’impresa. Essa è una particolare branca della psicologia la quale è non solo lo studio del comportamento e della mente ma, soprattutto, la ricerca e promozione del benessere delle persone nei contesti in cui operano: in questo caso, quello lavorativo.
Soprattutto in Italia, le aziende galleggiano alla deriva tra tasse e leggi ambigue, caotiche. Sanzioni punitive volteggiano come neri avvoltoi in agguato fra le righe di una burocrazia fiscale, complicata e cavillosa per depredare ad ogni inciampo, con multe salatissime – anticamera spesso del fallimento – i guadagni delle piccole e medie imprese.
Tra frustrazione e incertezza, le numerose difficoltà del presente, date da un mercato instabile, alitano come uno spauracchio sul collo dei lavoratori, che sommano al disagio psicologico personale, creato dalle preoccupazioni economiche e familiari, quello per un lavoro sempre più precario e non di rado accompagnato da un carico eccessivo di stress nel lavoro.
In questa deriva economica entrambi i settori affrontano i loro problemi da posizioni difficili e opposte. In questo oscuro contesto vediamo che insicurezze e difficoltà che risiedono alla base di entrambi i fronti, possono essere analizzate e mediate alla luce di una scienza di nuova generazione: la psicologia del lavoro.
Questa branca della psicologia si occupa infatti del benessere dei lavoratori e delle organizzazioni, tramite la valorizzazione delle risorse umane e dei processi organizzativi.
Ce ne parla il dottor Mattia Loy, professionista nel settore delle risorse umane, dello sviluppo organizzativo e lavorativo.
Serpeggia ultimamente nell’opinione pubblica, la convinzione che alla base di tutto il caos, le incertezze, la confusione, soprattutto nel mondo del lavoro, ci sia un preciso intento. Lo scopo di controllare persone e situazioni attraverso il disagio, da parte di pochi. Tutto ciò nasconde forse una forma di plutocrazia? Lei in particolare, Dottor Loy, cosa ne pensa?
In generale è vero che il disagio e la confusione sono strumenti di controllo sociale: a volte, sono usati in modo intenzionale, altre volte sono frutto della difficoltà ad agire in sistemi complessi. Un esempio può essere il mobbing: un fenomeno complesso riassumibile come il tentativo lesivo nei confronti della vittima per indurla ad abbandonare di sua iniziativa il posto di lavoro. Può essere messo in atto anche in modo inconsapevole dai colleghi quando c’è una condizione di attrito, oppure può essere lo stesso datore di lavoro a servirsene intenzionalmente (dinamiche di bossing) per liberarsi di un dipendente scomodo o in esubero, quando non vuole o non può ricorrere a vie ufficiali come il licenziamento. Ma è un metodo molto scorretto, oltre che illegale, considerando la sua lesività nei confronti di chi lo subisce. Devono esserci altre modalità, non può funzionare cosi.
Cosa mi dice dell’articolo 18?
Non è il mio campo, ma ci tengo a riportare il parere di molti datori di lavoro che conosco. L’articolo 18 è ambiguo perché non specificherebbe a sufficienza quali siano le “giuste cause” per licenziare. Il lavoro è un diritto e il posto di lavoro deve essere tutelato! Ma è anche vero che, se le leggi sono troppo restrittive, se il lavoratore è ipertutelato mentre il datore di lavoro deve accollarsi tutto il rischio imprenditoriale ed è oppresso da vincoli eccessivi, allora stiamo creando una condizione di potenziale malessere che rende rischioso assumere nuovo personale.
Per un motivo o per l’altro, c’è sempre la possibilità che un nuovo lavoratore non soddisfi le aspettative o che si comporti addirittura in modo lesivo per l’azienda: dunque, può sorgere la necessità di dover licenziare salvaguardare l’intera organizzazione e gli altri lavoratori. Se questo non è possibile, potrebbe scatenarsi la dinamica di bossing (da “boss”: il capo) di cui parlavamo prima, dove le motivazioni non sono legate ad una mancata “integrazione” fra colleghi ma è la disperazione unita al bisogno di liberarsi di un “cancro” per l’impresa!
I dati Excelsior sul 2009-2010 mostrano chiaramente come i datori di lavoro, soprattutto nella micro impresa soprattutto, preferiscano di gran lunga assumere persone che conoscono personalmente: una forma di cautela dovuta proprio a quanto detto prima. Il canale preferito è quello informale, dell’amicizia o delle raccomandazioni, più stage e tirocini per mettere alla prova i candidati. Sono le maxi-imprese che, invece, privilegiano l’analisi del Curriculum Vitae ed utilizzano una vera selezione del personale ad opera di specialisti, tramite test e quand’altro, anche perché i numeri consentono! Ma l’Italia è una nazione basata sulla piccola-media impresa, ed una persona che lavora male incide moltissimo in una realtà che ha pochi dipendenti e che, in tempi di crisi, fatica a restare in attivo: può fare la differenza fra la sopravvivenza e il fallimento.
Secondo lei, come siamo arrivati a questa situazione? Può darci qualche spunto dai suoi intenti, visto il periodo di incertezze e precarietà?
Il lavoro precario deriva sopratutto dall’esigenza di lavoro flessibile: una necessità che è sorta man mano che il modello della catena di montaggio, tipico della produzione fordista (da Harrison Ford, che creò la nota casa automobilistica americana), andava in crisi e scompariva. C’e’ stato un cambio nell’intendere il lavoro. Grazie a grandi tecnici del passato come, Taylor, si è cercato di scomporlo per renderlo più scorrevole, ottimizzarlo: usare cioè un metodo anche nelle operazioni più semplici. Tuttavia, il mercato del lavoro ha subito un’intensa evoluzione, è aumentata la richiesta di varietà e di prodotti personalizzati e il lavoratore è diventato sempre più “pagato per pensare” oltre che per lavorare di braccia. Tutto questo, unito alla prima crisi del petrolio, alla concorrenza ed al bisogno di snellire i costi di produzione e di stoccaggio, ha comportato l’impossibilita’ per le imprese di mantenere la loro rigidità. Così, sono nate anche le modalità di lavoro “atipico” e flessibile come parte della soluzione al problema.
Certo mi rendo conto. Si è quindi cercato di rispondere a questo bisogno di flessibilità per andare incontro anche alle necessità del datore di lavoro e del lavoratore, quelle di seguire le sue inclinazioni, la sua personalità e le sue esigenze?
Sì, almeno in parte: il contratto atipico serviva anche a questo ed in Italia si è cercato di concretizzare questo bisogno con la riforma Biagi: condivido l’opinione di molti secondo cui non centrò l’obiettivo. La flessibilità è un bisogno delle imprese ad esempio per affrontare i periodi morti, disporre delle competenze necessarie solo quando richiesto e, intensificare il lavoro nel momento in cui la richiesta di mercato si moltiplica. Di fatto, però, si è arrivati ad una situazione che necessita molte riforme: la flessibilità sarebbe ottimale in un mercato ricco di opportunità, dove passi da un lavoro all’altro senza interruzioni.
Il contratto atipico può però rappresentare anche una risorsa per le persone? Rendere il lavoro più versatile o personalizzato?
Certo: il part-time, ad esempio, può agevolare chi ha certe necessità, come chi vuole studiare mentre lavora oppure le donne in maternità che, a prescindere dalle varie azioni già presenti a loro sostegno, hanno così più tempo per sé stesse e la propria famiglia. Ma, ripeto, così funziona appunto in un mercato ricco di opportunità… di lavoro. Mancando queste ultime si crea l’ansia, l’instabilità, la mancanza di certezze per il domani. Solo se ci fossero le opportunità avremmo la vera flessibilità in cui, il lavoratore potrebbe passare da un lavoro all’altro facilmente così come previsto.
Quindi… anziché usufruire del benessere che la flessibilità prometteva ne è scaturita invece incertezza e malessere?
Sì, infatti le condizioni del malessere psicologico del lavoro intermittente sono palesi, soprattutto in chi vuole mettere su casa e famiglia, in particolare per l’uomo, perchè culturalmente ancora, nella nostra società è colui che deve garantire alla famiglia il sostegno economico. Quindi se già ti pagano una miseria e non hai certezze della consecutività del lavoro, è chiaro che la richiesta l’idea stessa di flessibilità fallisce. Il problema non sono quindi i vari lavori a progetto o a tempo determinato ma l’uso che ne fanno le imprese: alcune, molto scorrette, approfittano di queste leggi per far ruotare il personale e tenerne bassi i costi anziché impegnarsi con un contratto a tempo indeterminato anche se potrebbero. Il tutto, pur nel pieno rispetto della legge.
Il lavoratore, così, non riesce a farsi una carriera e vive costantemente nell’incertezza, senza riuscire a soddisfare bisogni essenziali come una casa propria o un’automobile (talvolta strumentale per lavorare), anche perché le banche difficilmente fanno credito a chi non ha entrate sicure.
Cosa si è fatto a priori e cosa si sta facendo oggi, per tutelare chi lavora e perchè questo non accada?
C’è in generale una sensibilità più o meno acuta del problema e la chiarezza che un eccesso di “precari” non fa bene né alle imprese, che non posso contare su lavoratori esperti e dediti, né all’economia, perché il precario ha comprensibilmente paura di spendere!
Il contributo psicosociale è sicuramente determinante nella risoluzione del problema, che però diventa concreta solo quando vengono emanate le dovute riforme sul piano giuridico e queste vengono fatte rispettare.
In un simile clima di confusione, trovo preoccupante anche come l’Italia reagisce davanti a novità positive già introdotte con successo in Europa, a favore del benessere dei lavoratori.
Un esempio? La valutazione obbligatoria dello stress lavoro-correlato assieme agli altri rischi per i lavoratori, come quelli fisici.
Da noi è obbligatoria dal 2010, anno in cui anche l’Italia si è adeguata alle normative europee sulla tutela dei lavoratori, con clamoroso ritardo.
Tanto per capirci, tutti gli strumenti dell’analisi generale che ho visto, e che uso, includono domande anche sulla forma di contratto, perché incide: è un indicatore.
Alla fine, qui stiamo confermando che la stabilità nel lavoro è un elemento essenziale per il benessere delle persone, che il lavoro precario nega perché non permette di avere gli strumenti per poter costruire una vita autonoma. Ci può spiegare intanto in che cosa consiste l’analisi dello stress da lavoro, e quando va fatto?
Cerchiamo prima di capirci sul significato della parola “stress”. Nel senso comune, spesso le persone di definiscono stressate quando si sentono stanche a causa di costanti e continui problemi, nel caso specifico relativi all’ambito lavorativo. Il che, tutto sommato, è vicino a quella definizione scientifica che vede lo stress come “la risposta dell’individuo alle richieste dell’ambiente”, in questo caso quello lavorativo. Condizione che, quando diventa eccessiva per durata e/o intensità, può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica e sociale. Lo stress, infatti, non è una malattia ma una condizione naturale i cui eccessi sono dannosi tanto per le persone quanto per le aziende.
Semplificando, si parla di “eustress” come condizione positiva di stimolo per l’individuo, mentre di “distress” come stress negativo, quello comunemente inteso: un carico eccessivo di stimoli che porta la persona a cercare di arrangiarsi nel quotidiano (strategie di “coping”) e può manifestarsi in modi molto diversi: urlare e sfogarsi in famiglia, fumare di più, scaricarsi facendo sport ecc. Se però la situazione perdura, possono insorgere serie complicazioni perché le strategie di coping portano appunto ad alleviare gli effetti ma non a risolvere il problema.
L’analisi va fatta in modo periodico (idealmente ogni 2 anni) ed è inclusa nel DVR, il documento di valutazione dei rischi (es. fisici, chimici, d’incendio eccetera) che contiene il resoconto delle valutazioni effettuate. Di solito, si parte con un’analisi generale tramite check-list che rappresenta l’ “interruttore” globale per sapere se, in una realtà lavorativa, c’è rischio da stress oppure no. In tal modo, si ha uno strumento per vedere se occorre un’analisi approfondita a livello soggettivo, coinvolgendo direttamente i lavoratori.
Quindi la figura dello psicologo del lavoro è determinante in questo senso?
Sì ma non come dovrebbe essere, ed è ciò che mi preoccupa. Gli strumenti d’analisi dello stress, anche quello per la prima valutazione generale (l’interruttore) sono molto delicati: richiedono competenze e sensibilità per essere usati correttamente.
A mio avviso, lo psicologo specialista in lavoro dovrebbe essere obbligatorio sin dall’analisi generale ma è tale solo nella fase di approfondimento, perché gli strumenti utilizzabili sono di solito di sua esclusiva competenza. Per la prima analisi, invece, ci sono strumenti utilizzabili da chiunque e questo porta a due conseguenze: un rischioso “fai da te” da parte di alcuni datori di lavoro e l’intromissione di altre figure professionali che si propongono per valutare lo stress, senza alcuna garanzia sulle competenze necessarie per un lavoro fatto bene. Ne ho sentite di cotte e di crude: addirittura chi ha affermato “ah, me lo ha già fatto il mio commercialista!” Con quali competenze non si sa.
Ma, oltre questi casi plateali, si crea un accavallamento di competenze e compiti anche fra le altre figure giustamente coinvolte nella tutela dei lavoratori, come gli ingegneri (soprattutto quelli specializzati in sicurezza) o i medici del lavoro: è mia opinione che ognuno debba fare il lavoro per il quale è stato adeguatamente formato e che la formazione interdisciplinare serva per lavorare bene in gruppo, non per invadere il campo di altri specialisti. In Italia, mi pare di cogliere che, invece, essa venga arrogantemente scambiata per un’ autorizzazione a svolgere compiti che non sono di propria competenza: se lo stress lavoro-correlato è un fenomeno psicosociale, deve essere solo lo psicologo del lavoro ad occuparsene! Non basta qualche corso di poche ore per preparare adeguatamente persone prive delle basi.
Ma è un fenomeno che riguarda un po’ tutte le professioni: addirittura, un caro amico avvocato mi ha raccontato che è diffusissimo il fenomeno che vede le persone incaricare i geometri per la redazione delle dichiarazioni di successione (a che titolo, non avendo essi mai studiato diritto successorio?), nonostante ciò richieda una notevole preparazione, al punto che spesso persino gli avvocati si rivolgono agli studi notarili per lo stesso motivo, essendo il notaio una figura notoriamente versata in materia successoria.
E questo con un risparmio di spesa, avendo i notai a disposizione delle risorse che i geometri devono invece recuperare con maggiori costi, che, ovviamente, ricadono sul cliente. E per cosa, poi? Per trovarsi spesso costretti a correggere il lavoro fatto dai geometri, ricchi di errori anche macroscopici, con costi economici e di tempo non indifferenti.
Torniamo al discorso di prima della confusione, che danneggia tutti gli utenti finali, partendo dai datori di lavoro, che si ritrovano davanti ad una nuova “tassa” da pagare senza coglierne i risultati: il rischio è quello di non rilevare lo stress anche quando c’è.
Se c’è una situazione di stress, l’azienda va in perdita, quindi quanto gli costa e quanto gli conviene? Viste alcune conseguenze dello stress come l’assenteismo, quanto è produttivo tutto questo per le aziende?
Il problema dei rischi psicosociali connessi al lavoro è che non sono facili da “vedere”: non è come un incendio o il rischio di tagliarsi con una sega circolare. Ma una situazione ricca di stress di certo non conviene alle imprese, anche perché è più facile che il mobbing insorga in ambienti saturi di stress negativo, con ulteriori costi e problemi: chi vuole i propri dipendenti che sprecano il tempo a farsi la guerra in ufficio, anziché fare il lavoro per cui sono pagati?
A tal riguardo, mi hanno raccontato di datori di lavoro che ignorano l’obbligo di legge o fanno l’analisi in modo tale da non rilevare intenzionalmente alcun o stress, in modo da non affrontare i costi per l’analisi approfondita: ma quanto costa non farlo?
Oltre le multe giustamente salate, avere una realtà lavorativa satura di stress significa andare incontro a potenziale alto assenteismo, turnover (abbandono dei lavoratori, da sostituire), scarsa qualità, alta conflittualità fra i dipendenti e problemi disciplinari, riduzione della produttività, errori ed infortuni ed aumento spese mediche: tutte cose che costituiscono spese vive e palpabili e sono opposte ad una qualità totale che, invece, va a vantaggio del profitto.
Ma chi compila le chek-list, ad esempio dell’Inail, è consapevole di quanto sia importante rilevare tutto questo? E, soprattutto sa farlo con tutti gli accorgimenti che una persona competente può fornire?
Come detto, l’uso del “fai da te è possibile” ma il rischio è non saper interpretare le domande, di incorrere ingenuamente in falsi negativi, sottovalutando indicatori importanti che l’abitudine può portare a sottovalutare. Dal mancato utilizzo degli elmetti e dei vari dispositivi di protezione individuale a piccoli infortuni o incidenti sul lavoro che, siccome non si trasformano in disgrazia, allora vengono visti come cose di poco conto quando invece potrebbero non esserlo. Nei casi migliori, è faciloneria …
Oggi il disagio psicologico che si riscontra nei dipendenti e nei proprietari di piccole e medie imprese è comunque notevole. Viene percepito nel collettivo e lo si respira nell’aria. I fattori scatenanti sono troppi, pressanti e incisivi, sembra quasi che nessuno ne sia esente. Cosa ne pensa?
Non posso che essere d’accordo: si respira un’aria di malessere diffuso, dovuta certamente anche alle caratteristiche del mondo del lavoro attuale, oltre che ad una perdita dei valori nella nostra società.
Ma il discorso del disagio può essere visto, a mio avviso, anche in chiave più ampia: quella di un affaticamento cognitivo generale: persone già mentalmente stanche per la crisi, per i problemi quotidiani, per tante cose che si sommano e che sono bombardate da troppe informazioni, anche inutili. Pensare è impegnativo e diventa ancora più gravoso quando bisogna costantemente verificare le informazioni. Già sul lavoro bisogna stare attenti a fiscalità, norme burocratiche, permessi, certificazioni, scadenze e quant’altro. Poi si sommano a tutte le problematiche derivanti dalla crisi e l’impegno sia mentale che fisico richiesto per gestire la propria vita sociale con amici, colleghi, parenti e famiglia. Tante cose a cui stare costantemente dietro: pensare, riflettere, tenere a mente.
La scienza rivoluziona costantemente il mondo del sapere e in generale dobbiamo adeguarci costantemente ad un mondo che cambia velocemente: dal re-imparare ad usare il cellulare quando ne compriamo un nuovo piuttosto che doversi studiare le nuove norme sulla fiscalità delle imprese quando esce una nuova legge, tanto per restare in tema. Non è una sola cosa alla volta, ma tutto un insieme di nuove informazioni da assimilare in tempi ristretti.
E le cose si complicano ancora di più quando l’informazione è ambigua, perché magari più specialisti dicono cose opposte sullo stesso argomento e succedo di continuo. Un po’ è la scienza che avanza, e quindi scopriamo cose nuove, un po’ è la strumentalizzazione dell’informazione, fatta appositamente per creare scompiglio. Un esempio banale: per anni si è detto che il latte e derivati fanno bene alla salute perché sono alimenti completi, con proteine e calcio. Oggi c’è chi sostiene che andrebbero consumati solo una volta ogni tanto perché avrebbero l’effetto opposto: quello di indebolire le ossa. A chi credere? È possibile informarsi da soli, ad esempio andando su internet per cercare ciò che ci serve: ma non possiamo mai sentirci sicuri perché, oltre ad essere molto impegnativo in termini di tempo ed energie, non abbiamo certezze sulle fonti e l’informazione può essere distorta anche da interessi economici. Si hanno allora tre opzioni: 1) o rallenti, del tipo: “faccio una pausa”, se puoi permetterti di farlo. 2) oppure ti fidi dello specialista, sperando che sia quello giusto e che non sbagli a sua volta; 3) resti ancorato nelle tue convinzioni, rifiutando le informazioni che vanno contro quello che credi di sapere. Le cose possono essere davvero molto complicate, soprattutto quando hai bisogno di certezze per agire.
Il rischio è quello di ridursi a vivere ogni giornata guidati dalla routine e dalle azioni automatiche in essa ormai consolidate, senza pensare attivamente alle cosse – anche quelle importanti.
Mi accorgo di questo soprattutto quando le persone fanno qualcosa di sbagliato (uno dei casi più evidenti è quando guidano): ogni critica, ogni accento sui fatti appena commessi causa una fortissima ostilità ed un rifiuto verso la responsabilità del proprio errore. A mio avviso, proprio un effetto della fatica di doversi mettere in discussione. Poi ci troviamo con i casi di bambini morti in auto dal caldo, perché lasciati in ambienti roventi per ore: non è solo negligenza da parte dei genitori! È possibile che sia dovuto anche a questo: l’essere umano è limitato anche come risorse mentali.
Tutto questo non agevola nemmeno i datori di lavoro, che hanno oggi un carico enorme di responsabilità. La cosa critica è che, in caso di errore (ad es. fiscale o di cattivo consiglio dello specialista), rischiano di andare incontro a multe salatissime. È un sistema che non perdona: ho una percezione di uno Stato che, se ti “pizzica non in regola”, ti sanziona subito senza darti il tempo di rimediare al tuo errore. Oggi una sanzione troppo salata può significare il fallimento: soprattutto le piccole imprese stanno morendo soffocate dai costi del lavoro e non pagarli significa andare incontro a multe che darebbero solo il colpo di grazia. Perché? Non so: forse i derivati del diritto napoleonico che tutela il fisco prima del cittadino o una cultura per cui l’italiano è truffatore e quindi si utilizza questa forma di terrorismo per disincentivare l’evasione fiscale. Colpirne uno per punirne cento?
Ormai è di rito per il cittadino sentirsi ripetere che le tasse servono. Che in questo momento la pressione fiscale è ampiamente giustificata per via della crisi dell’euro… e non aggiungo altro perché sarebbe un discorso troppo lungo. Scusi se provoco ma, è il mio lavoro.
Certo, infatti questo è un problema di primaria importanza. Certo le tasse servono: come avremmo altrimenti strade, scuole ed ospedali? Il problema è quando in Italia abbiamo una tassazione stimata intorno al 70%, quasi come nei paesi scandinavi dove però lo Stato ti da una quantità e qualità di servizi infinitamente superiore. Tornando al discorso dello stress, io capisco quando i datori di lavoro mi dicono che sono alla frutta e comprendo la loro reazione quando vedono la valutazione dello stress come un’ennesima tassa da pagare. Serve una rivoluzione anche sul fronte fiscale, in cui le imprese possono fare sì i sacrifici ma per un breve periodo. Oltre, non si può continuare a chiedere una simile tassazione e continuare ad aggiungere costi per la gestione del personale. Così si incentiva la disoccupazione e/o l’aumentare dei costi, non il benessere dei lavoratori!
Un lavoratore potrebbe autonomamente rivolgersi ad uno psicologo del lavoro per suoi problemi personali lavorativi, per situazioni d’insicurezza o per conferme sul suo comportamento ? Per risolvere situazioni conflittuali, anche personali che scaturiscono da problematiche sul lavoro?
Certo: sarebbe anche auspicabile ricorrere allo specialista prima che il problema degeneri e si arrivi al peggio! Purtroppo c’è molto pregiudizio circa la figura dello psicologo in Italia, quasi una paura. Troppo spesso mi sento ancora descrivere come quello che cura i matti, con impliciti riferimenti a Freud ed al paziente sul lettino. Altre volte, vengo confuso con una specie di psichiatra del lavoro, che cura le malattie mentali in ambito lavorativo, ma si è completamente fuori strada: lo psicologo del lavoro è spesso uno specialista delle risorse umane che si occupa di sviluppo e potenziamento di tutti quegli aspetti umani collegati al lavoro: formazione, selezione e gestione del personale, comunicazione anche in ambito pubblicitario, pianificazione del lavoro oltre che, chiaramente, la risoluzione di conflitti e problematiche. Dipende anche dal singolo percorso formativo e dalle varie competenze. Generalmente ho notato che gli uomini hanno più diffidenza delle donne, forse perché trovano più difficile aprirsi emotivamente.
Intervista integrale del 11/2012, rubrica “Amore e Psiche”
Giornalista: Maria Giovanna Amu