Da anni ormai il mondo imprenditoriale ed universitario hanno già messo in evidenza le best practices riguardanti la ricerca e selezione del personale: è ormai ben nota l’importanza di inserire risorse umane di valore secondo un’ottica quasi darwiniana di selezione del più adatto in termini di compatibilità con l’azienda, non solo per competenze ma anche per cultura e motivazioni, perché tali risorse sono una delle tre principali risorse per ogni business, assieme ai capitali ed ai beni materiali (come uffici e strumentazione per la produzione).

Quello che sta cambiando sono le modalità di ricerca e selezione del personale, influenzate dall’evoluzione socio-culturale: ormai in molti si pongono il problema di come attrarre (engagement) e mantenere (retention) le risorse umane ed in particolare i “millennials”, le ultime generazioni nate con lo smartphone e la tecnologia digitale in mano.

I millennials infatti sono differenti dalle precedenti generazioni per valori, desideri e aspettative. La Generazione X, nata intorno agli anni 80, costituisce una sorta di generazione-ponte tra i millennials e la generazione pre-digitale: protagonista della trasformazione digitale, prende il meglio da entrambe.

I millennials non rappresentano una generazione necessariamente “migliore” delle precedenti: più semplicemente, rappresentano l’inevitabile futuro e sta alle aziende influenzare tale futuro ed al tempo stesso abbracciarlo senza opporvisi. Sono piuttosto una generazione che vuole sentirsi protagonista, compresa, accettata. Spesso non c’è più il desiderio del posto fisso ma dominano i nuovi valori della scoperta, dello stimolo e della novità. La “stabilità” è legata più alla percezione di costruirsi una carriera piuttosto che a forme contrattuali, tant’è che spesso molti giovani in Europa preferiscono vivere in affitto con contratti a progetto ma di qualità per poter viaggiare, fare esperienza e maturare a modo loro senza particolari legami. Per loro cambiare spesso lavoro è normale, mentre in Italia le imprese, pur essendo le prime ad abusare delle forme atipiche di lavoro, sono le prime a guardare con sospetto chi porta tante esperienze di breve durata come se queste fossero per forza un indicatore di inaffidabilità o incostanza.

I millennials sono dunque i “giovani talenti” di oggi. Per “talenti”, in psicologia del lavoro, ci si riferisce più spesso a giovani neo-laureati o diplomati riconosciuti dal sistema scolastico come brillanti, anche se il termine “talento” si riferisce anche a singole competenze e capacità portate a livelli di eccellenza e frutto della propensione naturale a certe attività da parte del singolo, a prescindere dalla sua età.

Coinvolgere i millennials – così come qualsiasi professionista – è un risultato che si consegue tramite strategie di employer branding: l’equivalente del brand positioning noto nel marketing e nelle vendite dedicato alla ricerca e selezione del personale.

Sono finiti infatti i tempi in cui le aziende che assumono detenevano l’intero potere negoziale (secondo una logica “io ti pago e a te serve un lavoro”): oggi non basta più aprire le porte ed aspettare che arrivino i candidati ma bisogna pensare a come attrarre i migliori per competenze e compatibilità con l’azienda.

Employer branding e brand positioning vanno di pari passo ma non è detto che si sovrappongano alla perfezione. Per essere efficace, il primo deve trasporre l’essenza del marketing al recruitment.

Se marketing significa spiegare alle persone:

Perché dovresti comprare il mio prodotto/servizio da me e non dai miei competitors, piuttosto che non fare niente (e restare col tuo problema)

… l’employer branding deve spiegare chiaro e tondo ai candidati di valore:

Perché dovresti lavorare per me e non dai miei concorrenti, piuttosto che continuare a fare quello che stai facendo ora (incluso mantenere il lavoro attuale, il sussidio di disoccupazione oppure non lavorare e farsi mantenere dai genitori).

Tali motivi nel marketing devono essere noti al pubblico tramite il così detto “battlecry” o grido di battaglia. Uno “slogan” veritiero (anche declinato in più formule) che spieghi all’audience di riferimento il valore e l’elemento differenziante che caratterizza l’azienda, a prescindere che questa voglia attirare clienti o professionisti.

Per la Volvo il fattore discriminante che più di tutti induce i clienti target all’acquisto delle proprie auto è la sicurezza, per la RiFRA è la disponibilità diretta di arredo italiano di lusso all’estero senza passare dagli showroom etc.

Per l’engagement dei candidati è lo stesso: lavorare come giornalista per la RAI di 20 anni fa era un grandissimo prestigio, mentre Mediaset pagava un po’ di più ma le condizioni di lavoro erano diverse; la Philip Morris contemporanea, proprio perché vende un prodotto altamente nocivo come il tabacco, propone un ambiente estremamente positivo a chi ha una forte spinta all’innovazione, che vada di pari passo alla sua nuova mission di riconversione aziendale e di produzione di sigarette elettroniche (meno nocive rispetto a quelle tradizionali) con politiche di occupazione a favore dei paesi sottosviluppati, etc.

Una proposta uguale a quella di tutti gli altri porta unicamente alla riduzione di tale proposta al solo fattore economico, annullando ogni altro valore e creando caos.

Come detto, non basta un forte brand positioning per avere un forte employer branding: per motivi diversi, Amazon o Apple sono esempi di aziende con un marchio molto efficace sul mercato per i clienti, ma la loro capacità di attrarre talenti può non esserlo altrettanto.

Come il brand positioning, anche l’employer branding non corrisponde alla realtà oggettiva di fatto ma è legato alle percezioni ed al sentire della società. Che sia vero o falso, la percezione che la società ha dell’ambiente lavorativo di certe famose aziende è negativa perché associata a livelli di stress lavorativo molto alti. A nessuno piace lavorare per un’azienda che aumenta la marginalità grazie allo straordinario non pagato dei propri dipendenti, dove i manager fanno ricadere i problemi sui sottoposti anziché risolverli e dove il capo (o capi) sono persone ingestibili (per quanto dei geni sul fronte dell’innovazione e del marketing) proprio come viene ricordato Steve Jobs.

L’effetto così ottenuto è un costante turnover del personale: tanti che se ne vanno ed altri che arrivano già con l’idea di restare per un tempo definito, il tanto che basta per fare curriculum grazie al nome dell’azienda che assume e potersi proporre a realtà più gestibili e piacevoli anche se meno famose e redditizie. Tale fenomeno può portare alla paralisi organizzativa anche un’azienda di grandi dimensioni, che risentirà dell’aumento dei costi per via della formazione e degli errori professionali legati al costante avvio dei nuovi arrivati.

La Virgin di Richard Branson invece è l’esatto opposto: per quanto l’azienda abbia diversi problemi (non tutte le linee a marchio Virgin sono in attivo, anzi), Richard Branson è uno straordinario comunicatore che ha saputo crearsi un’immagine di datore di lavoro illuminato, che consente alle persone di esprimere il loro potenziale in ambienti di lavoro positivi, collaborativi e meritocratici dove si lavora per il senso di responsabilità e fedeltà all’azienda e non perché il datore di lavoro “compra” il dipendente tramite lo stipendio.

Le leve da utilizzare per l’employer branding sono molteplici e variano a seconda del contesto, settore e professioni anche all’interno della stessa azienda. Molte grandi imprese italiane che ho conosciuto ed in particolare quelle che operano nel settore dell’energia, ad esempio, hanno un forte employer branding per le figure tecniche e dipendenti ma alquanto povero (se non addirittura negativo) per quello che riguarda la forza vendite, che dovrebbe invece essere la priorità in un’ottica di crescita economica.

Una costante rimane sempre: le promesse fatte col grido di battaglia devono essere mantenute a tutti i costi, puntando sui reali elementi di forza dell’azienda (riscontrati tal volta anche dai clienti). Questo è possibile anche presso aziende che operano in settori saturi, dove in apparenza sembra impossibile trovare un elemento differenziante che renda unici rispetto alla concorrenza.

Da notare che il brand positioning e l’employer branding non equivalgono affatto alla semplice visibilità. Puntare ancora solo sulla brand awareness (semplicemente essere presenti nella mente delle persone) tramite messaggi di pubblicità generici o uguali a quelli di tutti gli altri oggi non funziona più per via del mercato contratto: addirittura lavora contro l’azienda, perché senza i dovuti accorgimenti stimola le persone ad interessarsi alla categoria ed al leader di mercato anziché all’impresa che ricerca nuove risorse umane.

Pertanto bisogna pensare a strategie comunicative dove si pensa davvero a ciò che l’azienda ha da offrire prima ancora a quello che vuole prendere, per poi comunicarlo come una promessa da mantenere a tutti i costi ai potenziali candidati. Troppe aziende promettono ambienti positivi e possibilità di carriera che poi inserire i candidati in ambienti caotici e conflittuali, con la costante pressione a comportarsi come “stupidi funzionali” e con obiettivi di produzione settati per essere impossibili e non pagare i bonus. Il primo passo è pensare ai propri punti di forza con grande onestà (per un imprenditore è facile innamorarsi della propria azienda senza vederne i limiti o ciò che i concorrenti fanno meglio) ed incrociarlo con un’analisi dei competitors per focalizzare la propria strategia.

Da notare che le varie generazioni che compongono il mercato del lavoro di oggi sono tutte alla ricerca del benessere personale, della propria soddisfazione lavorativa e di un continuo miglioramento della propria condizione anche come conseguenza dell’interazione con un mercato del lavoro sempre più precario, che ha contribuito a modificare i valori sociali riportando la flessibilità in auge. Ne consegue che oggi è in aumento la tendenza a cercare un lavoro per pagare le bollette e, appena trovato, continuare a cercare migliori opportunità senza impegnarsi con l’azienda.

Lo stesso Richard Branson sostiene che bisogna formare le proprie risorse sino al punto in cui potrebbero andarsene perché totalmente indipendenti e trattarle così bene che queste non vogliano mai andare via dall’azienda che le ha cresciute.

Pertanto l’importanza delle politiche di retention per “trattenere” i talenti e le risorse senior (visti anche i danni del turnover) è importante tanto quanto quella per trovarle ed inserirle: anzi, una generale soddisfazione lavorativa è tra le chiavi per un employer branding efficace, perché diventa un passaparola spontaneo.

Copia dell’articolo pubblicato sulla rivista di AIDP Italia 2018
http://www.aidp.it/hronline/2018/2/3/talents-engagementbr-sullattrazione-ed-acquisizione-dei-talenti-per-le-imprese-italiane.php